Un momento è quello che voglio

Si toccò i capelli, erano sporchi e addensati come cotone al sole. La barca poggiava su un mare fatto di luce, il caldo era sopra di lui e, ci avrebbe scommesso, anche sotto all’acqua su cui ormai era alla deriva da dieci giorni. Aveva ancora qualche scatoletta di cibo precotto, ed una bottiglia di acqua naturale. Il suo smartphone era lì accanto a lui, ricaricato da un piccolo pannello solare acquistato apposta per la sua avventura. Dopo aver deciso di mettere in gioco tutto se stesso erano passati solo due giorni, e lo aveva fatto. Aveva tagliato i rapporti con tutti, lasciato solo un messaggio alla sua famiglia, non drammatico. Sincero. “Voglio solo staccarmi un po’ da questa routine. Lo faccio per me, ma anche per voi. Non riesco più ad agire come vorrei. Sono troppo distante da me. Ho solo bisogno di un momento. Tranquilli torno presto.” E lo aveva fatto davvero. In effetti non credeva di poterlo fare. Si arrotolò un ciuffo di capelli attorno al dito indice, e pensò colpevole alle facce di chi lasciava indietro. Chissà quanto lo avrebbero maledetto. Non era però stato in grado di lasciare quel piccolo schermo che poteva connetterti con il mondo. “Per chiamare aiuto”, diceva a se stesso. Non era del tutto sicuro che fosse la verità. Aveva paura a lasciare davvero tutto. E poi, voleva provare a tenere un diario di viaggio e riportarlo ogni giorno sul suo blog. Alla deriva in mare aperto. Sarebbe forse diventato famoso. Molti lo avrebbero invidiato. Prese il suo telefono e lesse le decine di messaggi lasciati da amici e parenti, a cui aveva deciso di non rispondere. Voleva solo aggiornare il suo blog. Scrisse di essere ormai solo da giorni, e che le razioni cominciavano a preoccuparlo, ma che non si sarebbe fermato prima di aver raggiunto il suo scopo. “Cari lettori, avevo promesso di tornare solo quando avessi capito cosa fare della mia vita. Voglio rispettare questa scelta, e capire. Anche solo una direzione, ma vorrei vederla chiara.” Premette invio, ma il messaggio di assenza rete lo atterrì come uno schiaffo di dorso. Le specifiche di quella tecnologia gli assicuravano una ricezione pari a quella satellitare, e non aveva mai messo in dubbio, scioccamente ora realizzava, questa semplice promessa di vendita. Non dopo la legge del 2025. Comunque, nessuna comunicazione. Girò la testa come a cercare una soluzione vicino a lui, e vide solo acqua. Tutto intorno. Lanciò quell’inutile tavoletta in fondo alla sua modesta barca, e cominciò a pensare se davvero avesse senso questo improvviso uscire dal suo piccolo, solito mondo. Pensò fino a quando il sole non cominciò a scendere sotto l’orizzonte, e il freddo ad infilarsi sotto la sua t-shirt preferita. Allora si coprì con la giacca, ed allora accadde qualcosa di eccezionale. Sopra di lui, nello spazio nero-grigio-rosso un’enorme palla arancione strappò il cielo con  una scia gialla di polvere. Il meteorite corse oltre il suo campo visivo, e si tuffò nell’acqua, a qualche chilometro da lui. L’onda che prese vita e si gonfiò di sfida lo travolse dopo qualche minuto. Il suo cuore, mentre vedeva quella enorme mano d’acqua che lo annientava, batté come migliaia di ali di coleotteri. Il respiro gli sollevava il petto senza tregua, e un lungo urlo fu l’ultimo atto di quell’avventura. Un istante dopo, i suoi occhi si riaprirono nella sua cella, nel sotterraneo del penitenziario di media sicurezza dove ormai da quindici anni scontava la sua pena. Rimosse delicatamente gli “stitch” dalle tempie, e tornò a vedere il reale intorno a sé. Il permesso di uscita virtuale gli era ormai concesso senza particolari problemi da tre anni, due volte all’anno. Poteva scegliere dove andare e cosa fare, senza limiti. Bastava dirlo qualche giorno prima alle guardie, che lo avrebbero riportato ai programmatori. Il sistema di Kruger veniva impostato su quell’ambiente e quella situazione, il resto lo faceva la sua mente, del tutto ingannata da quel nuovo reale. Come tutte le altre volte, l’esperienza, il suo viaggio altrove, terminava in modo violento, uccidendo in qualche modo il suo io virtuale. Il senso di colpa per quello che aveva fatto aveva sempre la meglio, e anche in quell’altrove, lui si puniva. Ricordò solo per un attimo il suo crimine, come ogni volta dopo il ritorno dal viaggio della mente. Ricordò con poche immagini che lo riassumevano alla velocità del pensiero: lui che correva per il lungo viale affollato, in fuga; la ragazza che aveva preso in ostaggio; il suo foulard che strinse per tenerla ferma; il colpo che le diede al fianco, per farla smettere di agitarsi; infine la furia con cui la lanciò in strada, per liberarsi di lei; l’auto che la travolse. Il suo corpo che ridiscendeva a terra come non avesse più uno scheletro. I suoi stessi occhi terrorizzati (quando ricordava quei momenti, non sapeva spiegarselo, si guardava dall’esterno). Gli uomini che lo raggiunsero e lo immobilizzarono a terra. Il ricordò finì, e la sua cella tornò da lui a raccontargli che cosa aveva lasciato lì fuori, e cosa avesse trovato lì dentro. La speranza continua, e continuamente tradita, ed ora la completa sua assenza, in qualche modo abbinata a una forma di pace. Il dolore, però, rimase uguale prima e dopo. “Sai cosa mi manca di più?” Disse oltre le sbarre, alla guardia di turno, che non rispose. “La cioccolata”. La guardia non rispose. “No, non è vero, mi manca anche la mia famiglia, anche se non vedevo praticamente più nessuno; e mi manca la prima casa dove siamo andati a vivere in città, quando mio padre è stato trasferito.” Inspirò profondamente, a lungo, poi espirò. Lentamente. Si rese conto di non ricordare più il nome della via. La via della sua prima casa in città. Si sforzò, fermo, immobile. Gli occhi ansiosi di cercare ovunque intorno a lui qualcosa che era nella sua mente, e che cercava di emergere in mezzo a centinaia di lettere. Le poteva visualizzare come fossero reali, tutte quelle lettere che si illuminavano alternandosi in un sussurro visivo, finché qualcuna rimase accesa, senza più spegnersi, poi affiancata da un’altra. La parola stava per tornargli alla mente, quando il violento clangore delle porte della cella gli strappò quella verità dalla mente cosciente, ricacciandola giù. “No, non proprio ora, vi PREGO, NON ORA”. “Stai zitto, stronzo di un assassino”, scandì forte uno dei due agenti. “Vieni con noi”. “Dove, che volete, lasciatemi qui!”. “Ma che cazzo dici? Tu oggi te ne vai, ti sei scordato?”. “Dove, ma che dite?”. “Ma cosa dici tu, bastardo! Quell’aggeggio ti ha bruciato quel cervello sadico che ti porti in giro dalla nascita? Oggi è il quindici più uno, ti ricordi? Oggi mandiamo il tuo cervello al campo dell’energia. Ti ricordi, schifoso?”. Fulmineo, lui ricordò. Le pene oltre i quindici anni venivano tramutate automaticamente in morte del corpo, e utilizzo del cervello per alimentare le centraline del paese. Tutti insieme, i derelitti della società erano collegati in rete per erogare energia. Amnesia temporanea, effetto comune del viaggio virtuale di Kruger. Alimentato dalla folle paura che lo strinse improvvisamente, al ricordo della sua imminente “redenzione”, come pubblicizzavano i manifesti del bollettino della sicurezza, l’oblio temporaneo prolungò il suo effetto, e ogni possibilità di ricordare il nome della via dove era cresciuto si allontanava velocemente. Mentre lo trascinavano via, i suoi occhi urlarono lacrime che divennero voce: “NO… VI PREGO, ANCORA UN GIORNO… UN’ORA… PER FAVORE, VI CHIEDO SOLO UN MOMENTO, PER FAVORE, SOLO UN MOMENTO.”

 

© Andrea Orlando – 2018 – Tutti i diritti riservati

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