V

[…segue]. Il sole mattutino si accaniva con sadica curiosità sulla scena che accadeva sotto di lui: Calia aprì velocemente la porta e rimase abbagliata. Ma fu un attimo. Quando i suoi occhi, fini agenti di ricerca che le regalavano la compensazione del sordo mutismo, misero a fuoco quel che stava avvenendo, un trascorrere elettrico di nervi dalla vista al cervello provocò nella sua reazione un brivido di energica decisione, e attesa rivincita: un cinghiale la stava puntando e, correndo chino, le si avventava contro, stridendo con urla disumane. Calia ansimò, il suo petto si alzò ed abbassò velocemente, gli occhi si socchiusero. Alzò il fucile, puntò, e fece fuoco. Un colpo. E il fumo dello scoppio annebbiò la distanza, lasciando emergere lentamente l’immagine vertebrale del corpo ucciso della famelica belva. Calia la aveva colpita esattamente al centro degli occhi. Ma non sarebbe finita lì. Da tempo ormai i cinghiali intorno alla casa desolata avevano preso ad attaccare inspiegabilmente l’abitazione, come a voler manifestare un’ostilità innaturale, loro che non attaccano se non affamati (ed il bosco non gli negava cibo), contro quella vittima dell’umana follia, il nodo di ogni calamità. Calia ricordò.

Dopo l’orribile accanimento della comunità contro il suo corpo, Calia rimase un giorno intero inerte a terra, davanti alla sua abitazione, lacerata nell’anima, e desiderosa solo di morire. Non le fu permesso. La sua vita non era finita. Era appena cominciata. Con un sospiro aprì gli occhi, e vide accanto a sé una ciotola e un pezzo di pane. Era il solo accadimento che poteva riportarla in vita: che la vita le si posasse accanto. Scostò un po’ di terra muovendo piano la mano ferita, e raggiunse la piccola porzione di cibo, che riuscì a prendere, dopo infiniti sforzi, al prezzo dell’esplosione del dolore addormentato. Fu un urlo straziante senza suono che le consentì di tornare alla vita, ed un brodo ed un pezzo di pane che la aiutarono a farlo. In quel momento capì di dover continuare, e decise di accettare il suo destino. Mentre riprendeva forza, e riacquistava un po’ di vista, la vita le rispose. Questa volta non era però dalla sua parte. Un cinghiale uscito dal bosco era a pochi metri da lei, minaccioso, e la guardava dritta negli occhi, come se capisse, come se la disprezzasse, come a suggellare la colpa che le era stata attribuita, la bambina che sopporta il peso del peccato. La fissava come un essere umano, con occhi grigio/verdi che contenevano due buchi neri infiniti, persi nel nulla. Quell’attimo durò secoli, ed ogni destino dalla umana genesi fino a quell’istante implose e si accartocciò, come se fosse arrivata l’ora dei conti tra uomo e natura, Dio e la sua creazione. Tutti gli uomini e le donne, del passato e del presente, in quell’attimo, assistevano alla tremenda risoluzione, la sfida di tutto. Il cinghiale poteva finirla in un istante, e quegli occhi chiamavano il suo sangue. Ma li spense, e girando la testa si mosse allontanandosi, tornando nel bosco, rimandando la risoluzione. Calia comprese tutto, ma nel suo cuoricino di bambina fu travolta dalla paura, dall’impotenza, e dalla solitudine. Pianse ogni lacrima che aveva in corpo, di paura, di disperazione e, disidratata, svenne.

I suoi occhi erano ora su quella belva a terra, spenta in un’innaturale mancanza di suoni, senza una goccia di sangue. Annientata. Fu Calia questa volta a ricambiare lo sguardo. Fissò la creatura fino a trapassarla, sicura, forte, con ventiquattro anni di umana passione. Le forò l’anima oltre che il corpo, e non pianse neanche una lacrima.

Quando, dodici anni prima, rinvenne dallo scontro dei suoi occhi con quelli della bestia, riuscì, oltrepassando il dolore, ad entrare in casa, terrorizzata. Si chiuse dentro e non visse mai più come prima.

Ora, di fronte al suo nemico, ma vincitrice, non le sembrava di aver superato niente di più che un fuscello nella foresta del suo destino, cupa su di lei. Rientrò in casa, raccolse i vetri del bicchiere infranto ad uno ad uno, fino a farne scomparire ogni traccia. Aprì la mascella dell’animale e lì gettò dentro di esso, tagliuzzandone l’anima forata. Poi alzò gli occhi. Era ormai mattino inoltrato, ed il sole aveva distolto lo sguardo, stizzito. Era bello però. Accarezzava tutto il paesaggio, il meraviglioso alternarsi di colline, montagne e vallate in lontananza, con sfumature di verde, grigio e marrone. Superiori ad ogni destino umano, quelle colline rappresentavano per Calia la salvezza da ogni corruzione, il limite oltre il quale era la via di fuga dal piccolo mondo in cui era nata. Gli uomini e le donne della sua comunità avevano reso Calia la fisica vittima sacrificale della loro salvezza metafisica, ma lei sarebbe stata l’espressione concreta dell’umana forza, della speciale tempra di cui sono fatti alcuni esseri, in alcuni luoghi, in alcune ere. Calia era stata bastonata, ma si era rialzata, e non per continuare a morire giorno dopo giorno. Dal momento in cui era rimasta sola, aveva dedicato all’osservazione di quelle montagne un po’ del suo pesante tempo, scavalcandone ogni giorno le cime, ed ogni giorno andando sempre più in là nelle sue spedizioni immaginifiche, osservando mondi al di là di esse, creature, invenzioni, amori, sogni, meraviglie e vita, vita pura, senza ostacoli, senza limiti, senza ruvide lacrime di insopportabile abbandono. Calia era viva, e voleva gridarlo al mondo. O meglio, a ciò che lei credeva fosse il mondo al di là de quelle montagne. Perché di là da esse, al di fuori di quella che fu per lei la sua comunità natale, Calia non era mai stata. Non aveva mai respirato lontano da quel cerchio d’erba circondato da foresta e selvaggia pianura, coltivato e curato dalle sue lunghe dita, e sfiorato dai suoi capelli raccolti quando chinava i suoi occhi speciali sul verde del pezzo di mondo in cui viveva da sempre.

Di fronte allo spettacolo della natura profonda, non poteva comprendere il perché della sua segregazione, del suo destino accettato e quasi provocato e mantenuto da tutto ciò che le stava intorno, dall’erba alta al di là del suo centro abitativo, sempre più avanzante a causa dell’insufficiente lavoro di una persona sola, alla presenza dei cinghiali che, come diabolici guardiani della sua prigione d’aria e natura, le impedivano di allontanarsi e di fuggire [continua…]

 

© Andrea Orlando – 2012 – Tutti i diritti riservati