[…segue] Il pugnale penetrò la carne del cinghiale ucciso, ed il taglio che Calia impresse nel corpo della diabolica bestia liberò tutta la costrizione della donna prigioniera, aprendo l’inizio della conclusione, la speranza della libertà. O la sua morte. Quel primo scontro, da anni annunciato ed ora risolto, proseguiva e completava una successione di indizi, strane sensazioni, rumori, ringhi, che Calia aveva imparato a riconoscere come presagi di un accadimento da attendersi, come spesso, nel corso degli anni, si verificavano i piccoli eventi della sua prigionia. Una strana catena di rumori dal bosco preannunciava un incendio; il volo insolitamente controvento di uno stormo di Codirossi era seguito dopo qualche giorno dalla caduta di un albero che distruggeva uno dei resti delle case del villaggio, ormai un triste cimitero di rovine delle vecchie case della comunità; una successione rapidissima di caldo e freddo preparava ad una pioggia improvvisa di insetti dal cielo. Nella sua sopravvivenza, prigioniera del villaggio distrutto e del bosco, Calia aveva saputo costruire nel tempo della sua recente vita solitaria una solida ruota di buonsenso, freddezza, intelligenza, capacità. Quella capacità che le permise di non perdere mai del tutto la sua infantile vitalità, cristallizzandola piuttosto in un detrito in fondo al suo essere, congelata nella speranza che un giorno si sarebbe sciolta infondendo calore alle membra stanche.
Ora tutto ciò confluiva in quello sparo preciso, deciso, pronto. Uno sparo unico che aveva annientato il primo cinghiale che la avesse fino a quel momento attaccata direttamente. E Calia non era stata impreparata di fronte al principio della risoluzione che questo atto rappresentava. Svuotò la carcassa della bestia e, rientrata in casa, gettò le interiora nel fuoco. Aveva vissuto ogni momento della sua prigionia con una piccola brace in fondo al cuore, mai spenta, sempre leggermente rossa di impaziente rinascita. Ora la brace cominciava a rinascere e, lentamente, scioglieva il ghiaccio della sua vitalità congelata.
Un rumore di passi all’esterno fece vibrare leggermente il terreno sotto i suoi piedi. Calia si immobilizzò davanti al fuoco. Le fiamme le disegnavano danzanti ombre sul viso, mentre purificavano le carni immonde del cinghiale. Ascoltò i piccoli cambiamenti nell’aria e nel suolo, come solo una creatura privata dell’udito e della parola può imparare a fare. I passi si avvicinavano, rubando silenzio all’inquieta pace, e si fermarono alla porta, che si aprì dolcemente. Calia già sapeva, ma i suoi occhi rilasciarono le lacrime trattenute per anni da cristalli contro il sentimento, ed il suo cuore rumoreggiò tanto che le sembrava che il suono del battito arrivasse alle sue orecchie cieche. Sorrise, e corse fra le braccia di Ramon, apparso sullo stipite della sua dimora in attesa. Ricordò allora perché, nonostante tutto, fosse grata di vivere. Quel momento fu la conferma solenne che la sua speranza aveva iniziato a costruire un futuro che forse non sarebbe stato solo nel suo cuore.
Rimasero abbracciati a lungo, Ramon e Calia, guardando solamente dentro le loro anime. Ora, finalmente, a contatto. Il fuoco bruciava. Il resto della carcassa pesava sul terreno di fronte alla casa. Le montagne ponderavano. Tutto aveva in quel momento un equilibrio. Le lacrime cessarono. Sul viso rigato di Calia comparve un lieve rossore, che la barba incolta di Ramon contribuì ad imporporare. Guardandola negli occhi, l’amico di sempre capì molte cose, e si spaventò. Altre invece, altre ombre nascoste negli occhi profondissimi di Calia, non riuscì a comprenderle, e si spaventò. Capì però limpidamente che, al suo posto, non avrebbe resistito, non avrebbe sopportato tutto ciò a cui Calia non soccombette. Conoscere quella creatura speciale lo rese improvvisamente più orgoglioso di quanto già non fosse. Abbassò gli occhi, un po’ imbarazzato, e chiuse la porta.
“Come stai?”
Calia comprese con gli occhi quelle due parole lasciate scappare dalla bocca nell’aria frustata. E con gli occhi Calia rispose. Ramon tentò di continuare.
“Io…”
Lei lo guardò con dolcezza, e deglutì per cacciare dentro altre lacrime. Era sovrannaturale, pensò Calia, quello che riuscivano a comunicarsi senza parlare, dopo dodici anni di distanza. Lui sentiva la stessa meraviglia. Si spostarono di fronte al fuoco del camino, e Calia si accorse che Ramon zoppicava leggermente. Chiese, con gli occhi, perché.
“Quando sono fuggito mi hanno colpito, ma non è grave”
Più che le singole sopravvivenze, Ramon e Calia, di nuovo insieme, rappresentavano la concreta possibilità che quella guerra potesse avere una fine, e che potesse non essere già decisa. Calia, sola in quel villaggio, era ancora in salute, seppure a Ramon sembrò di trovare al suo posto una signora, non una ragazza di ventiquattro anni. Ramon, che doveva essere lontano anni e chilometri dal destino della sua amica, era ora lì, abbracciato a lei. Non esistevano in quel momento parole in grado di superare l’emozione dell’incontro che entrambi aspettavano e che poteva non avvenire mai in un mondo così maledetto; come Calia, ieraticamente, non aveva più lo strumento della parola, così Ramon, che pure lo aveva, lo perdeva temporaneamente, per accostamento d’animo, di spirito, e di disperazione, con l’unica persona che avesse mai avuto un’importanza per lui. Inoltre, la stanchezza li avvolgeva con continuità. Seduti di fronte al camino, al calore del cambiamento, si persero nelle fiamme e, leggeri come da tempo lunghissimo non poteva essere, si addormentarono. Nella fresca mattinata, dentro la calda casa, in mezzo al Male. [continua…].
© Andrea Orlando – 2012 – Tutti i diritti riservati