[…segue] Nel precipitare giù Ramon ripensò alla sua fuga di un anno prima, e alla terribile lotta che dovette affrontare per riuscire a liberarsi dalla prigionia in cui la comunità lo aveva ridotto dopo i ripetuti e maldestri tentativi di fuggire. Preparatosi al meglio in una notte dal cielo chiaro dove scorrevano nuvole filiformi, a Ramon sembrava di essersi lasciato ormai il villaggio addormentato alle spalle quando fra lui e la fuga si frappose Garco, il ragazzo che tramite l’annientamento di Ramon sperava di essere eletto “anziano tra i giovani”, un ruolo chiave per il quale erano in corsa lui ed altri tre ragazzi dopo il passaggio del precedente “anziano tra i giovani” ad “adulto”. Sembrava che lo aspettasse, quel ragazzo senza scrupoli, favorito nella sua ascesa comunitaria da uno sguardo che piegava a terra chiunque accettasse la sua sfida. Ramon non poteva competere con la potenza e la crudeltà di Garco ma aveva, nei momenti di pericolo, la capacità di spostarsi agile come mai neanche lui stesso avrebbe pensato. Questa sua insospettata abilità, unita ad un fato sereno per lui in quella quieta notte, gli permisero di riuscire a superare il feroce nemico, al prezzo di una ferita alla gamba che non presagiva una guarigione veloce. Garco non riuscì, adirandosi con occhi perduti, ad uccidere né a fermare il tanto odiato Ramon che ora, precipitando verso il fondo, sentiva la gamba ferita accendersi di sadico bruciore. Dopo il faticoso percorso tra terre e stanchezza in un anno che sembrava congelato, tutto il coraggio raccolto, tutta l’abilità concessagli, tutti suoi propositi per riparare la sua colpa nei confronti di Calia, stavano finendo con lui nella profondità di un pozzo. A cosa era servito tutto ciò? Aveva tentato, si rispose, ma la consolazione non riusciva ad emergere dall’angoscia del suo ultimo pensiero: sto per morire, e non ho fatto nulla di utile, per me e per Calia.
Le mani di Calia, tornata per poco bambina al riparo di un letto che aveva scaldato i suoi genitori anni prima, avevano smesso di tremare, ma la ferita che si erano causate stringendo il pugnale, sebbene lieve, portò fuori del sangue diramatosi in una macchia scura sulla coperta marrone che la proteggeva. Una nuvola cupa su un cielo di terra. Accadeva qualcosa intorno a lei. Qualcosa di grande. Calia non era più immersa in un silenzio costante ed uniforme, che la isolava per gran parte dalla realtà come se fosse sempre immersa in un liquido. Calia era ora avvolta dal rumore del silenzio. Poteva sentirne distintamente il ronzio, la mancanza di suono, meglio: la presenza della mancanza. Calia ruotava gli occhi ed ascoltava i rumori della notte, in quel luogo dove non esistevano pressoché altri suoni che quelli della foresta, ora in un riposo teso. Venne sopraffatta dalle vertigini, e si sedette sul letto, gettando la coperta macchiata sul pavimento. Fissava un punto che non esisteva di fronte a lei, e lentamente raccoglieva dentro di sé la comprensione di quello che stava succedendo, così improvviso e così grande che non poteva essere accettato se non dopo una prolungata esposizione all’accadimento. Calia ascoltava, e tentava di comprendere di nuovo il senso che per anni aveva perduto. Infine, una folata di vento intorno alla casa terminò il processo di accettazione. Calia aveva riottenuto la capacità di ascoltare, le sue orecchie si erano svegliate da un innaturale sonno. Muovendo velocemente gli occhi per cercare di resistere, cedette infine alle lacrime inevitabili: il suo corpo aveva percorso la prima tappa della sua reintroduzione nel mondo, in una realtà che da quella notte di dodici anni prima, nell’entrata nel suo dodicesimo compleanno, le aveva chiuso l’accesso, coprendosi di un involucro da cui per lei non poteva uscire alcun suono. Ora quell’involucro veniva strappato, e Calia era riammessa a partecipare alla vita. Mentre i suoi occhi, di nuovo accompagnati dalle orecchie nella loro funzione di percezione, continuavano a rilasciare lacrime tributando l’evento, il secondo suono che Calia sentì dopo il vento fu l’urlo di Ramon, che aveva raggiunto la fine del pozzo. La felicità dell’udito ritrovato venne così spezzata dalla paura di ciò che stava accadendo al suo amico sul fondo di un cunicolo scavato nella terra nera.
Ramon urlò di dolore urtando contro le pareti del pozzo poco prima di essere schiaffeggiato dal tonfo dell’acqua del fondo. Emergendo dall’apnea, sentiva il polso della mano destra rotto senza dubbio, aggiungendo una nuova menomazione a quella della gamba ferita da Garco. A parte questo e diversi graffi e lividi, era intatto. Non avrebbe potuto sperare in tanta fortuna. La sua precipitazione finiva senza danni gravi ma il terrore e la mancanza assoluta di un’idea su come risalire non gli permisero però di gioire né di rasserenarsi. Il cinghiale era lassù, lo avrebbe aspettato anche per l’eternità, e il dolore al polso gli impediva di pensare. Ramon, salvatosi dalla caduta lungo i metri sottoterra del pozzo, pianse di disperazione. Complice dei carnefici, uditore terrorizzato, soccorritore incerto, vittima e prigioniero, fuggitivo, ramingo ed infine salvatore sperato e disperato, Ramon era giunto in fondo ad un pozzo di dolore e di speranza, ricercando una mappa che avrebbe potuto essersi disfatta da anni. Una mappa che avrebbe condotto lui e Calia al centro di un terra da cui probabilmente non sarebbero mai più tornati. Malgrado tutto, Ramon viveva. [continua…]
© Andrea Orlando – 2012 – Tutti i diritti riservati