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Mostra iceland

SpazOxygene, nei giorni di 19.20.21 Ottobre 2012, dalle ore 19, ospita la mostra con suggestioni visive/rappresentazioni fotografiche di paesaggi islandesi, con miei testi in prosa e poesia ad accompagnare la visione, e musiche originali di Luigi Luzzio. A che serve? Provate a venire.

Metro “A” fermata Cipro/Musei Vaticani. Roma.

 

Al rientro è tutto differentemente uguale

Si, non cambia molto, eppure gli occhi hanno un filtro indosso, residuo dell’atmosfera del nord, con cui ciò che vedi non è proprio uguale a come lo avevi lasciato. Lo guardi, lo osservi un po’, e poi esso ti dice qualcosa che non gli avevi mai sentito comunicare. Per questo è meravigliosa la partenza, per questo è meraviglioso il ritorno. Da lì poi porti immagini, e non solo dentro di te, ma impresse sulla tecnologia che ci regala nuovi modi di testare la realtà. E ci sorridi sopra, anche attraverso, perché non sono mai davvero opache quelle stampe, mai davvero concrete, mai solo carta stampata. Sono irreali anche. Ora ci rifletto, sul fatto che conosciamo così poco che quando usciamo fuori dal piccolo contesto ti viene voglia di urlare come di fronte a luci verdi danzanti nel cielo lontano. Ora ci penso, si. Mai poi ve parlo, io e gli altri che con me hanno guardato qualcosa che non esisteva. Lo faremo ad Oxygene. Non fra molto, che di questo abbiamo proprio voglia di parlarvi presto.

Verso svartifoss, e poi, ora ormai, Grundarfjordur

“Foss” qui vuol dire cascata, e qui ce ne sono di visioni d’acqua che scendono verso di te con superba curiosità, chiedendoti perché sei lì e cosa vuoi trovare, perché loro lo sanno, e ti osservano per metterti alla prova. Non dovrai chiederglielo, solo stare ad ascoltare te stesso che ne guardi la furiosamente silenziosa voce che scorre. E dopo ghiacci, e erba, ed entrambi gli elementi insieme, a tenersi per mano, e poi nulla più se non nebbia, e poi un cono di sole che sembra una gamba di Dio che scavalcando il cielo viene a vedere se è tutto a posto, e poi acqua, e poi neve, e ghiaccio che traballa sicuro sull’acqua, ed erba. Tutto insieme, a rincorrersi e a scavalcarsi. Su tutto, l’aurora serpeggia silente, ma la devi saper guardare, altrimenti non esiste.

Vik(inghi)

Alcune leggende bisognerebbe visitarle prima di poter dire che rimarranno tali anche se le hai toccate. Per alcune di esse non esiste altro reale che quello che gli neghi. Prima tappa attraversata dopo l’arrivo inconsapevole nella terra dei ghiacci. A Vik non c’è altro che una decina di piccole costruzioni, un ufficio postale, un supermercato e tre alberghi o Bed&Breakfast. Intorno nevi che credi di dover dimenticare tanto sono estreme e meravigliosamente inesistenti. Gli occhi hanno bisogno di essere ri-calibrati, le mani di imparare a muoversi nel freddo, i piedi a portarti vicino a visioni di cui potresti diffidare.

 

shame on us

Vergogna di vivere, vergogna di sopravvivere, vergogna per voltare gli occhi di fronte a chi chiede aiuto, vergogna di non sapere chiedere aiuto. Mentre ti trascini nel mondo cercandone  l’energia in un corpo, nell’esplorare il contatto, il calore, l’elettricità, il mondo non pensa a te, ti guarda lasciarti annichilire semplicemente per il gusto di dire agli altri che sa cosa cerchi, e che lui, il mondo, ti offre tutto, proprio là, ma non sta a lui dartelo, piuttosto a te prenderlo. Tu prenditi una puttana, prenditi una birra, prenditi una rivista, una webcam, una doccia, e di nuovo tutto daccapo, il mondo continua a sorridere dandoti tutto quello che ti serve, e a volte giocando con i segnali, i micro-fati di un destino che non è scritto, e gli estremi messi lì apposta per farti capire. Di volerne fare parte, o di escluderti. Dagli eccessi, dalle relazioni, dalle certezze. Scegli tu, e se te ne vuoi andare da qui, pensaci, pensaci ancora, ripensaci e osserva i dettagli. Noti le strade? I tailleur, i colpi, il vino, il canto, il colore dei capelli, gli anelli? Non ti sembra che qualcosa dietro ogni elemento ci sia, a dirti di andare avanti, o indietro anche, ma di muoverti? Ah, no, se non è così allora sbagliano, gli altri non capiscono, tu invece si. Gli altri cercano sensi nei legami, ma sensi non ce ne sono. E sono davvero stupidi a crederci, ché qui davvero ce n’è per tutti, ma i legami, davvero dove sono andati a finire? Nascosti bene, così bene? Ma ci sono. Forse. Proprio lì davanti. Peccato non afferrarne le corde. Vergogna. Dove sei finita?

Non c’è la necessità di vedere questo film, perché non racconta nulla di nuovo. Disagio, incertezza, vuoto, violenza, sesso. Tutti estremi già conosciuti ed esplorati in mille modi nel cinema. Ma lo fa bene. Gli attori lo fanno bene, la regia te lo racconta bene (ormai camera a mano, ormai cupi i colori e inquadrature ferme, un tempo avremmo detto troppo ferme, ormai finale aperto, ché nessuno rischia più di affermare una verità). E’ un racconto furbo, ma funziona. La crudezza? Diavolo se serve quando devi dare l’idea della caduta! Che fai nascondi tutto il precipitare e stacchi sul tonfo in fondo al pozzo? Un solo colpo devastante rende meno che tanti (in)costanti colpi alla dignità e alla morale. Non vedetelo, se questi ultimi due vocaboli hanno un senso univoco.

Alcatraz, non esisteresti senza il patriarca

Se dovessi riflettere sul perché funzionano così tanto le serie tv di matrice americana, la risposta è sempre quella che mi trovo a sentenziare a chi me lo chiede, al caffè di un mai così ispirante locale di Roma (tocca trovarne di magici, come a Parigi o a New York, ma questo è luogo comune no? Qualcuno ne conosce però?).

La risposta, comunque, è che, nella tragica frenesia del vivere, la pillola di 45 minuti risulta più digeribile di un film, ed il ritmo ormai perfetto ti scivola dentro così privo di attrito che non ti accorgi neanche che hai rubato qualche decina di minuti al sonno, e ne vuoi anche altro. L’effetto di assuefazione si comincia a far sentire, e tu chiudi con un gesto secco il portatile, e giù di nuovo nel reale. Ma già ti manca il racconto.

Fa seguito agli ormai numerosissimi prodotti di qualità statunitensi la nuova storia di J.J. Abrams, nome profetico che il creatore di Lost ha imposto al pubblico da una decina di anni. Il nuovo racconto a puntate (che ricordiamo richiama gli effetti del romanzo d’appendice [sotto inciso: perché non leggersi allora il mio romanzo a puntate che ho ripreso a pubblicare sul sito?]), dicevo il nuovo racconto si chiama Alcatraz, storia misteriosa e temporalmente senza regole della scomparsa di 306 tra detenuti e secondini del carcere di massima sicurezza, “La roccia”, sito sull’isola di fronte a San Francisco. Il carcere chiuse nel 1963, ufficialmente i detenuti sono stati trasferiti, ma… manco pe’ niente. Nessuno sa dove siano finiti realmente. Una squadra speciale formata da un misterioso uomo di stato, una giovane detective e un noto studioso di Alcatraz (il buon Hugo di “Lost”, Jorge Garcia) staranno all’erta ad accogliere, uno dopo l’altro, l’improvviso ritorno di chi scomparve nel 1963.

Mistero, sapienza narrativa, montaggio impeccabile, di nuovo il tempo spezzato a rompere ogni regola. Lo sappiamo, ormai, Abrams ha ridefinito alcuni punti del serial, ha acchiappato Nerd e meno Secchioni, e confluito la voglia di avventura e mistero di ognuno di noi nelle sue storie seriali. Mi sembra dal primo episodio di Alcatraz che gli elementi che abbiamo amato in Lost e Fringe ci siano tutti. Certo, il rischio del déjà vu comincia ad essere alto. Però fa piacere ricominciare a sperare di nuovo di stupirsi.

Le Idi di Marzo

Giorno dell’assassinio di Giulio Cesare, termine non così nascosto per la morte della coerenza nel mondo fittizio e sporco della politica. Nessuno di può salvare.

Pochi giri di parole, sceneggiatura lineare e semplice, ché lo dobbiamo ricordare, alcuni film devono parlare a tutti, ed il cinema di argomento politico già non viene visto con allegria, se non fosse di semplice comprensione, sarebbe solo per un gruppo, non così ristretto ma sicuramente meno numeroso, di amanti, del cinema, del genere, dell’attore/regista.

Non da trattenere come “Confessioni di una mente pericolosa”, ma da gustare. Guardatele, male non fa. Quando il film si segue, quando non ti accorgi che c’è una macchina da presa tra te e gli attori, allora è buon cinema.