Band of Brothers

Mi è tornata alla mente ed ho ripreso a vederla. E’ una miniserie, dunque una storia raccontata a capitoli, che progredisce come un unico grande racconto. Un gran film diviso. E’ un peccato che non si usino più le sotto-categorie, perché spiegano meglio il senso di quella che ormai definiamo genericamente “Serie Tv”. Vi ricordate quanto andavano di moda negli anni ’90, soprattutto quelle tratte dai romanzi di Stephen King, come It, Tommyknockers – Le creature del buio, L’ombra dello scorpione? O come The Kingdom di Lars von Trier? Adesso sono in parte tornate di moda nell’era Netflix, e le ho sempre adorate, perché hanno un senso di unità che la semplice “serie tv” non ha, essendo quest’ultima solitamente più dispersiva, e orientata a portare la storia su più livelli, per trattenere più pubblico per più tempo possibile. Ecco perché la serie tv è suddivisa in stagioni, che proseguono fino a quando il pubblico è disposto a guardarle. La miniserie no, esiste in un numero finito di episodi perché sono quelli necessari perché la storia raggiunga il suo acme, per poi terminare, quasi naturalmente.

Band of Brothers è del 2001, ha dieci episodi, ed è prodotta da Stephen Spielberg e Tom Hanks, che si erano trovati bene a girare nel 1998 Salvate il soldato Ryan, e che hanno poi collaborato parecchie volte insieme. Quando uscì era la miniserie più costosa della storia, ed ha vinto diversi premi, Emmy e Golden Globe. E’ tratta dal libro omonimo di Stephen E. Ambrose ed il titolo è preso dal discorso di Enrico V nel dramma di Shakespeare. Racconta la storia della compagnia Easy, un gruppo di paracadutisti altamente addestrati che la notte prima dello Sbarco in Normandia vennero “lanciati” in Francia per neutralizzare le artiglierie tedesche e favorire lo sbarco della Fanteria. La miniserie racconta il loro addestramento, le loro azioni in Europa, fino alla fine della guerra.

Perché ho voglia di parlarne? Perché è una serie veramente ben fatta,  coinvolgente, e nonostante racconti eventi bellici che già molte volte sono stati portati al cinema o in tv, lo fa con uno spirito di rispetto e veridicità che riesce a trasportare lo spettatore in mezzo ai soldati, come una presenza discreta ma attentissima. Questa sarebbe la qualità principale del cinema che racconta di eventi reali, ma metterla in pratica è davvero difficile. Che piaccia o meno l’argomento della guerra, storicamente è preziosissimo un mezzo di racconto che riesca a farti avvicinare anche solo di un passetto verso la realtà, con le sue sensazioni, colori, suoni e follia. Questa miniserie ci riesce. E lo fa in un modo intelligente: non drammatizzando eccessivamente le sensazioni, ma raccontandole. Ogni episodio è introdotto da testimonianze di sopravvissuti della compagnia Easy, che hanno ispirato i protagonisti della miniserie, e la cui identità viene rivelata alla fine. Naturalmente la storia si prende delle licenze, perché lo spettatore possa godere di un buon racconto, ma si respira un’aria di verità che lascia a bocca aperta. Potrei analizzare la camera a mano, il montaggio attento che racconta più di quello che si vede, la musica, la bravura degli attori, ma in questo spazio vorrei lasciare le sensazioni che ho provato, perché è quello che, se condiviso, potrebbe portarvi a guardare questo bell’esempio di cinema, solo visto in uno spazio più piccolo e intimo, come quello della tv.

Band od Brothers è sincero, crudo non più di quello che la guerra è, dunque estremamente, ma senza brutalità extra, è commovente, immersivo, è dolorosamente giovane come i ragazzi che vedi, con cui puoi immedesimarti o meno, e che poi a volte scompaiono, è un racconto che ti fa domandare “cosa avrei fatto io se fossi stato in quella guerra, e come lo avrei fatto, sarei stato un codardo, un eroe, un assassino?”. Per tutto questo vale la pena che lo guardiate, perché se il mondo, e gli uomini, possono essere delle realtà orribili, questo abbiamo, e questo siamo, e dobbiamo conoscere entrambi al meglio per poter contribuire a migliorare questo mondo e a migliorare noi stessi.

Il potere di un buon racconto è tutto, straordinariamente, qui.

Alcatraz, non esisteresti senza il patriarca

Se dovessi riflettere sul perché funzionano così tanto le serie tv di matrice americana, la risposta è sempre quella che mi trovo a sentenziare a chi me lo chiede, al caffè di un mai così ispirante locale di Roma (tocca trovarne di magici, come a Parigi o a New York, ma questo è luogo comune no? Qualcuno ne conosce però?).

La risposta, comunque, è che, nella tragica frenesia del vivere, la pillola di 45 minuti risulta più digeribile di un film, ed il ritmo ormai perfetto ti scivola dentro così privo di attrito che non ti accorgi neanche che hai rubato qualche decina di minuti al sonno, e ne vuoi anche altro. L’effetto di assuefazione si comincia a far sentire, e tu chiudi con un gesto secco il portatile, e giù di nuovo nel reale. Ma già ti manca il racconto.

Fa seguito agli ormai numerosissimi prodotti di qualità statunitensi la nuova storia di J.J. Abrams, nome profetico che il creatore di Lost ha imposto al pubblico da una decina di anni. Il nuovo racconto a puntate (che ricordiamo richiama gli effetti del romanzo d’appendice [sotto inciso: perché non leggersi allora il mio romanzo a puntate che ho ripreso a pubblicare sul sito?]), dicevo il nuovo racconto si chiama Alcatraz, storia misteriosa e temporalmente senza regole della scomparsa di 306 tra detenuti e secondini del carcere di massima sicurezza, “La roccia”, sito sull’isola di fronte a San Francisco. Il carcere chiuse nel 1963, ufficialmente i detenuti sono stati trasferiti, ma… manco pe’ niente. Nessuno sa dove siano finiti realmente. Una squadra speciale formata da un misterioso uomo di stato, una giovane detective e un noto studioso di Alcatraz (il buon Hugo di “Lost”, Jorge Garcia) staranno all’erta ad accogliere, uno dopo l’altro, l’improvviso ritorno di chi scomparve nel 1963.

Mistero, sapienza narrativa, montaggio impeccabile, di nuovo il tempo spezzato a rompere ogni regola. Lo sappiamo, ormai, Abrams ha ridefinito alcuni punti del serial, ha acchiappato Nerd e meno Secchioni, e confluito la voglia di avventura e mistero di ognuno di noi nelle sue storie seriali. Mi sembra dal primo episodio di Alcatraz che gli elementi che abbiamo amato in Lost e Fringe ci siano tutti. Certo, il rischio del déjà vu comincia ad essere alto. Però fa piacere ricominciare a sperare di nuovo di stupirsi.