dentro al film: circondati da 24 realtà al secondo

Dentro al film: circondati da 24 realtà al secondo

Dal M.R.P. (Modo di Rappresentazione Primitivo) al M.R.I. (Modo di Rappresentazione Istituzionale) il passaggio si può sintetizzare con la progressiva consapevolezza ed il contemporaneo indirizzamento delle tecniche verso una centralità, ubiquità e invulnerabilità dello spettatore. Sentirsi al centro, voyeur non guardati, è la sensazione dello spettatore odierno, e il compito dell’autore/regista, consapevolmente (e convenzionalmente) dal 1929 (dopo l’introduzione del sonoro, ultimo passaggio della centralità) quello di dargli questa sensazione . Gli strumenti del regista sono quelli del linguaggio cinema (definitosi nel passaggio attraverso la linearizzazione, la costituzione di uno “spazio abitabile” nella dialettica luce/ombra e uso del colore, il piano emblematico, la carrellata etc..) e attraverso di essi chi sta dietro la m.d.p. indirizza lo sguardo e la mente di chi sta davanti allo schermo. In una sala…o in una stanza.

La metafora che proponiamo nella sceneggiatura è molteplice: la stanza è ad un primo livello la sala di proiezione, ad un secondo lo schermo al cui centro prende posto virtualmente lo spettatore, e spingendoci oltre, la mente dello spettatore stesso, che passa in rassegna le immagini (rappresentazione del film frammentato nelle sue unità costituenti – le fotografie; od ognuna film a se stante) e ne cerca una loro collocazione semantica all’interno del bagaglio di conoscenze e immagini già presenti nella propria mente, immagini di vita e di film passati, di realtà e di finzione (è forte il rimando a Memento, Id., 2000, Christopher Nolan). Lo spettatore è attivo, riflette sulle immagini riflesse dallo schermo.

C’è una contrapposizione. Tra chi guarda (chi può e chi vuole) e chi, pur volendo, non può. Chi è ammesso alla sala e chi ne resta escluso. La grande differenza tra chi ha gli occhi alla stregua di finestre sul mondo (piccoli schermi in miniatura dove la luce proietta immagini) e chi si trova impossibilitato ad aprire le finestre, chiuse e senza una chiave, è nella idea del mondo. E della realtà. Si tratta di visione in senso lato, fondamento del cinema. La percezione è qualcosa di sfuggente e spaventosamente falsificabile. Chi non può guardare percepisce altro, perché incanala l’attenzione sugli altri sensi, e ciò che la sua mente “vede” è diverso, talvolta opposto a chi si affida alle immagini e ai sogni ad oggi aperti, i film. Un altro modo di “vedere” e, di conseguenza, interpretare. E allora quale realtà dobbiamo considerare attendibile, e in base a quali parametri attendibile?

C’è un percorso suggerito, o meglio “imposto” (anche se non del tutto) visivamente allo spettatore, e un percorso interno che Jost e Burch richiamano spesso nei rispettivi libri, nel sottolineare l’autonomia di chi guarda un testo presentatogli, specialmente all’interno dell’autarchia delle immagini del M.R.P.. Un percorso interno unico per ogni paio di occhi immersi più o meno a fondo in una storia ad immagini. Le immagini si dilatano, assumono rilievo, si staccano dal flusso o ne diventano parte inscindibile, comunque si ricompongono e vivono di nuova vita entro la mente di chi guarda, spettatore cinefilo o meno, altamente alfabetizzato al linguaggio o neofita dello schermo. L’inganno biografico di Hildesheimer nel suo Marbot in campo letterario è alquanto vicino all’opera di finzionalizzazione, non riconosciuta da alcuni, costruita da Woody Allen nel suo Zelig (1983, Woody Allen), e sono ottimi esempi dell’inganno cui ogni spettatore è disposto a mettersi alla prova nell’interpretare la realtà attraverso altri occhi, quelli dell’autore. Realtà necessariamente de-contestualizzata e ri-contestualizzata da chi guarda, nella propria ottica di “vedente”. Potremmo dire “veggente” di un nuovo mondo, ibrido di realtà e finzione, finzione propria e altrui. Il risultato è una perdita di punti di riferimento: che cos’è vero? La domanda viene esplicitata in F per Falso (F for fake, 1975, Orson Welles).

Al centro di un mondo parallelo, lo spettatore ne viene allora invaso, e la “sua” realtà perde a poco a poco i confini per divenire un unico quadro impressionista di forme vaghe e impressioni contaminate tra realtà e sogno. Di nuovo dove è la verità? Cosa di quello presentato giunge immutato allo spettatore, e cosa viene stravolto nella propria visione della visione? L’esempio più calzante è forse la matrice dell’omonimo film (Matrix, 1999, Andy e Larry Wachowski), spaventosa e non così inverosimile analisi di una società post-moderna tutta esistente nella nostra mente e da questa teoricamente modificabile. L’eroe Neo, spettatore di un film più reale del reale, costruisce l’apparenza che ha di fronte, mentre il suo corpo fisico giace in un altrove etichettato come “realtà”. Così come il corpo dello spettatore del cinema del M.R.I. giace seduto su una poltrona mentre la sua mente compie il “viaggio immobile” di cui parla Burch.

Nella sceneggiatura noi spettatori ci troviamo a guardare uno spettatore che guarda; la m.d.p. è il nostro occhio o meglio un ulteriore occhio tra noi e lo spettatore, l’occhio del regista, un altro livello. Potremmo virtualmente pensare ad ulteriori livelli di sguardo, infiniti. Ritroviamo la caratteristica dei re-cadrages di Metz, i livelli si confondono rimandando l’uno all’altro, la realtà si sfuma. Nel finale della breve storia simbolica, lo spettatore prende parte alla meraviglia del cinema, diventando egli stesso oggetto da guardare. Dentro il quadro, dentro il film. Ad indicare la compenetrazione tra cinema e vita, su cui indaga recidivamente Woody Allen nei suoi film (La rosa purpurea del Cairo, The purple rose of Cairo, 1985 Woody Allen, o Stardust Memories, 1980 Woody Allen, per citarne due), e su cui le strategie di finzione del cinema (soprattutto di quello elettronico e poi digitale) permettono di giocare, falsificando e confondendo la visione, la memoria e la comprensione dello spettatore.

Siamo certi dell’esistenza di una compenetrazione anche tra i tre livelli di posizionamento dello spettatore individuati da Jost, i creduli, gli scettici, i decadenti: ognuno opera una analisi del testo filmico in relazione alla posizione che ha scelto ed occupato, ma in definitiva questa posizione viene di continuo ridefinita, e sceglie quale tipo di spettatore vuole essere in quel momento, davanti a quella pellicola, quel regista. Decide di essere credulo nella favola futuristica di Blade Runner (Id. 1982, Ridley Scott), o scettico sulla storia di streghe di The blair witch project ( Id. Daniel Myrick Eduardo Sánchez), o decadente nel godersi la messa in scena della mobilità dello spettatore/macchina da presa in Nodo alla gola (Rope, 1948 di Alfred Hitchcock). Per capire davvero la bellezza e la compresenza di novità e tradizione ne Il gabinetto del dottor Caligari (Das Kabinett des Doktor Caligari, 1920 Robert Wiene) o il fascino dei film dei Lumière o di Méliès, o ammirare il “piano emblematico” di The great train robbery (1903, Edwin S. Porter), per fare degli esempi, dobbiamo scegliere di diventare spettatori creduli, far regredire la nostra competenza sedimentata nei decenni di cinema e avere pretese diverse. Ognuno ha voglia di essere ciò che il film e il momento lo spingono ad essere. Non esiste un unico spettatore, né uno spettatore uguale a se stesso sempre, ma una serie di immagini evocative che, anche tramite rimandi alla pittura e ad altre arti, aprono mondi nascosti di sperimentazione dell’io, altri io. Fight Club (Id. 1999, David Fincher) mette in scena proprio questa alterità, nella persona di Tyler Durden, alter ego di uno “spettatore della vita”.

E’ ciò che cerca di darci di continuo il M.R.I., consapevole della voglia di “evadere” dell’uomo e alla ricerca perpetua della giusta presentazione del “sogno di celluloide”: sappiamo tutti che è un film, ma è presentato così sapientemente da insinuarsi nella voglia, presente in ogni essere umano, di entrare in esso. Linearizzazione di un desiderio. E sospensione dell’incredulità, a diversi livelli.

Arte e vita. Nell’immenso archivio di vite parallele che è il cinema, possiamo pensare ognuno di noi come protagonista e artefice di almeno un fotogramma (fotografia), con le sue idee, le sue paure, le sue perversioni…la sua vita. Lasciamo il segno di noi, della nostra cultura, della nostra era, nelle immagini dei film, come nell’arte in generale. E allora ogni film è un rimando a qualcosa o qualcuno, in un infinito gioco intertestuale che falsifica tutto, che crea e distrugge, e cambia.

Quella situazione sullo schermo non assomiglia incredibilmente a quella volta in cui mi sono trovato…? Non potrei essere io stesso il protagonista di Apri gli occhi (Abre los ojos, 1997, Alejandro Amenàbar), o rivedere nello sguardo truccato di Alex/Malcolm McDowell in Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971, Stanley Kubrick) una mia espressione o un mio pensiero in una qualche situazione della mia vita di attore/spettatore? Di fronte ad un film, spesso ci troviamo a formulare pensieri che esulano dal tema, dall’immagine, e magari nascono da un particolare, da una messa a fuoco su un angolo del frame. E’ una libertà di scelta all’interno del campo imposto alla visione. Amelie (Il favoloso mondo di Amelie – Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain, 2001, Jean-Pierre Jeunet) lo fa abitualmente (“Mi piace fare attenzione a tutti quei particolari a cui nessuno farà mai caso”), e lo fa guardando Jules e Jim (Jules et Jim, 1962 François Truffaut), rimando intertestuale (ancora Woody Allen, nel suo aspetto “citazionista”). Neo si sente in uno stato di continuo Déjà-Vu. Fuori dallo schermo questo meccanismo continua ad esserci, e anzi si alimenta. Si esce dalla sala, ma non si può uscire mai del tutto dai film. In una sala sperduta, in un film sconosciuto, continuiamo ad esistere, per altri spettatori che sono anche, sempre, attori.

© Andrea Orlando – 2012 – Tutti i diritti riservati