“Giù in strada, alle 23:12 in punto, iniziai a sgranocchiare una vita che non mi apparteneva. Ci presi gusto, e risi in un modo che mi inebriò, disorientandomi. Poi mi fissai su una piccola lumaca ai piedi di una fontana: saltò di colpo e si immerse in acqua. Era quello che avevo sempre desiderato: un’avventura in una realtà che non ne aveva. Chiamai me stesso, chiusi gli occhi e tornai felice in casa. Quella notte si accese una candela nel mio spirito. Non ero più solo. Continuavo a vivere, ma sapevo di farlo.”
Il ragazzo non sapeva esattamente da dove venissero quelle righe, ma gli suonavano bene. Si alzò dal tavolo, si stiracchiò un poco, poi prese il cappotto e scese in strada. Non era una giornata del tutto fredda: il freddo, più che sentirsi a pelle, si percepiva, nell’atmosfera, nell’umore. Era il primo giorno della sua nuova vita, il primo nella sua nuova casa, solo, senza il calore di altre persone a condividere un tetto. Anche per questo sentiva più freddo di quella coppia di anziani che passeggiava a braccetto, attorniata da un’aura d’amore, o almeno così immaginava il giovane: da poco laureato, fresco di paura.
Camminò un poco, sperando di riuscire a scoprire qualcosa, e brillando di immaturità nel constatare che non voleva scoprire un senso, solo era desideroso di uno spruzzo di vita, perché ne aveva tanta da provare. C’era un gioco che amava: schiacciare con il piede le foglie secche, sentire il rumore timido della frantumazione e creare melodie nella sua mente che ri-assemblavano la morte fragorosa di quelle foglie in un paese fantastico, abitato da tutto ciò che la fantasia umana, la sua, tirava fuori nel tempo. Dalle molte volte che aveva fatto quel gioco, aveva creato un mondo più che degnamente popolato, denso di dettagli e esseri, e una donna in un castello inconsapevole della sua bellezza.
Non c’era quasi nessuno in giro, e un tappeto disomogeneo di foglie arancio-marroni lo invitava al calpestamento, perciò il suo piede destro cadde impaziente sulla prima, ma il sinistro rimase fermo in aria, e tornò indietro distratto dallo squillo del cellulare, in un’insolita ora delle prime della notte.
– Si, pronto?
– Giù in strada, alle 23:12 in punto, iniziai a sgranocchiare….
La voce recitava alla lettera il brano scritto qualche minuto prima, e che copriva parte di un foglio bianco poggiato sulla sua scrivania, a casa.
– Chi è!?
– E tu chi sei?
– Chi parla!
– Carlo sono io
– Michela?
– Si. E’la nostra storia quella che leggo?
– Sei a casa mia?!
– ….Si
– Ma come cavolo…
– Bruciala o brucio tutto!
– Cosa?
– Torna qui e brucia questa storia, o io ti brucio casa!
– Ma sei impazzita?
– TORNA SUBITO!!
– Pronto…Michela!!!
Attaccato. Poteva davvero giungere a tanto? Corse indietro a ripercorrere la poca strada fatta, salì di corsa a casa, girò la chiave nella serratura, e lei era lì, seduta sul divano, nuda. Il foglio del breve inizio della storia in mano. In un attimo, un flashback rivela la natura della minaccia materializzatasi: quella storia era un loro progetto, prima che si lasciassero. Avevano, per gioco e con una piccola speranza di pubblicazione, iniziato un complice e segreto progetto di una storia che, fantastica, ripercorresse la loro storia d’amore. Semplice, ma più importante di tutto, fatta insieme. L’abbandono di lui, con tutte le regole di rispetto che in questi casi si dovrebbero seguire, ne faceva il leale ma odioso responsabile della distruzione di quel piccolo progetto: e se non si fosse fatto insieme, allora non si sarebbe realizzato per nulla.
– Michela, per favore…
– Stai zitto. Bruciala o ti distruggo la casa.
Vicino a lei, una tanica.
– Oppure, amore, torniamo a scriverla insieme.
– Cristo Michi.
– Zitto! Non voglio spiegazioni, solo lealtà. Se non siamo insieme a scriverla, non la scrivi!
– Michela che stai facendo…?!
– Allora non capisci?
– Va bene, d’accordo, ma chi se ne frega! Non la scrivo!
– Bruciala.
– Dammi qua. Pazza furiosa.
Il foglio andò in fumo in un attimo. Piccoli pezzi di cenere sul pavimento.
– Bene, addio.
– Michela, cos’hai?
– Ti amo.
– Ma io no.
– Se potessi sentire quanto ti odio anche, cadresti in ginocchio. Mai, mai è stata così forte la fusione tra i due estremi; la vita che scorre dentro di me è ingigantita da un forza più potente di ogni energia. Il desiderio di saperti mio rende acido il mio sangue, e questa esaltazione di vita sconfina nella morte, tesoro. Io voglio annientare perché la vita senza di te è esplosa.
Mentre parlava, il foglio risorgeva dalla ceneri, si ricomponeva unito nel brillante bianco della cellulosa. Parole comparivano nella verginità della nuova essenza: un nuovo inizio. Il ragazzo è terrorizzato dalla potenza demoniaca della ragazza, la guarda stupefatto e irrigidito, lei cammina verso di lui, piano, lo supera, raccoglie il foglio di nuovo esistente, lo poggia sulla scrivania. Poi, calma di un’energia latente, lo bacia, assaporandolo per l’ultima volta. Supera la soglia e chiude la porta. Dietro di lei, nella casa, il giovane comprime l’orrore in una compostezza insperata, si accorge dell’assenza delle ceneri, del foglio di nuovo sulla scrivania: come un sogno, forse niente è accaduto. Il respiro riprende lento a solleticare la vita, lui si avvicina al foglio, lo prende in mano. Ne legge le righe. “Noi, ora, Tu e Io, non possiamo più sorreggere il peso dell’aria”. Una vampata accende il corpo del ragazzo, d’improvviso, diabolica. L’ardente gemere del giovane non ha voce, nell’ovattato mondo che scompare. Mute, le urla non hanno vita, solo la deformazione del volto le rende concrete. Dimenandosi e urtando, il suo corpo brucia. Giù in strada la ragazza, candida di morte, osserva i bagliori riflessi dalla stanza del 4° piano. Come in un piccolo caminetto, quel che è stato non è più.
© Andrea Orlando – Tutti i diritti riservati