VI

[…segue] Un giorno, all’età di quattordici anni, la maturità di Calia ebbe uno scatto di coscienza, e la sua intelligenza illuminò un pensiero semplicissimo, eppure nascosto, sebbene presente, nelle viscere opache della sua essenza: scappare. Perché non ci aveva pensato prima? La  risposta fu piuttosto immediata. Era ancora una bambina. Inoltre c’era lo shock profondo, immenso, di ciò che le avevano fatto. Sapeva che non avrebbe mai superato la tremenda sensazione di dolore che ormai le si era innestata nel DNA, e capiva che un tempo lungo era necessario per prendere coscienza dell’ammaccatura della sua anima, della perenne sconfitta della sua sacra e ingenua visione del mondo, della nudità di fronte alla presenza del Male che, su di lei, si era manifestato con troppa purezza. Proprio quella semplice realizzazione completò il suo passaggio all’età adulta. Calia, in quel giorno dei suoi quattordici anni, smise di essere una bambina, e accettò del tutto di inglobare la radice del Male che l’aveva corrotta facendole conoscere l’aspetto della vita che un tempo non credeva esistesse (e Mary-Jo le piaceva perché glielo faceva dimenticare, ogni tanto). Insieme capì che poteva scappare, andare oltre quelle montagne. Ed era così semplice, ora che era arrivata a questa conclusione, che il primo pensiero della sua età matura fu denigrare la piccola Calia, che fino ad un istante prima accettava stupidamente una realtà che aveva una soluzione, logica, scarna, rapida come un proiettile.

Di corsa entrò in casa, raccolse le poche cose che pensava potessero esserle utili, le infilò in un sacco pezzato dalle continue riparazioni, e si avviò lontano da quell’inferno verde, per sempre. Fu allora che la sua nuova coscienza ebbe un ulteriore scatto, così vicino al primo, fondamentale, movimento di fuga. Due cinghiali, d’improvviso, le si pararono davanti, inchiodando i loro quattro occhi nei suoi, trafiggendola di terrore. La sua coscienza allora vibrò, e Calia capì. Non poteva scappare, e quella gabbia naturale, che credeva immaginata, era tanto reale come quegli occhi bestiali indicati da quelle diaboliche corna ricurve. La sua lotta, allora, assunse i contorni dell’universalità. Doveva accettarsi simbolo e vestirsi di sovrannaturale risoluzione, per spazzare via la paura, assimilandola nella consapevolezza del suo essere Bene, in guerra con il Male. E non si trattava di quell’ex-comunità, di quel puntino nel mondo. Era qualcosa di più grande, di eterno. Comprese, Calia, di essere l’emissario degli uomini contro la natura offesa, di essere stata colpita, messa alla prova per poter resistere allo scontro. Osservata non solo da quegli occhi ma, come due anni prima, da innumerevoli fantasmi passati e presenti. Non indietreggiò di fronte alle due bestie-guardiani. Piantata, fissa in quegli occhi bruciati di nero, comprese ed accettò. I due cinghiali respiravano fermando l’aria. Ambasciatori del male, portarono il messaggio e, certi che fosse arrivato, lasciarono il campo, scomparendo nella foresta. Calia restò lì, guardando le montagne, scavata. Poi indietreggiò, entrò in casa, oppressa eppure insensibile, e poggiò il sacco. Ritornando lentamente alla sensazione vitale si guardò intorno, piegò la testa verso il pavimento, e si inginocchiò a terra. Un vento improvviso corse intorno alla casa, chiudendo la porta violentemente, e tramortendo l’esterno. Quel giorno aveva visto distintamente i contorni della sua prigione di aria ed erba.

Dieci anni dopo, Calia ripensava a quel momento di atroce consapevolezza, dopo l’annientamento di uno di quei bestiali emissari del Male. Il primo annientamento. Ribaltando i ruoli da sempre scolpiti nell’attesa, lei ora era la vincitrice, la determinata. Non era più la bambina che pensava semplicemente di fuggire lasciandosi tutto dietro. Aveva smesso di esserlo non appena le fu chiaro con chi doveva combattere. Ora era la donna che quella bambina iniziò ad essere nel momento in cui i due cinghiali le impressero i loro occhi dentro la sua pelle; anche se le montagne che fissava erano sempre lì, sempre uguali, come spettatori di un dramma infinito. Il cinghiale ucciso a terra, le schegge del bicchieri dentro di esso, Calia in piedi ad osservare le montagne impassibili, l’atmosfera di quiete prima dell’attacco: questo, il sadico sole mattutino, osservò di lassù. Calia uscì dai ricordi, entrò in casa, e prese il pugnale pulito dal cassetto del mobiletto. Le echeggiava in testa il nome di Ramon. Con la lama fra le mani, tornò fuori. [continua…]

 

© Andrea Orlando – 2012 – Tutti i diritti riservati